Petite Mort di Jiří Kylián, Walking Mad di Johan Inger e Artifact Suite di William Forsythe: l’Ètoile Alessandra Amato, i Primi Ballerini Susanna Salvi, Claudio Cocino e Alessio Rezza, i Solisti e tutto il Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma portano in scena un trittico dedicato alla danza neoclassica. Lo spettacolo sarà in replica fino al 21 marzo. Si tratta di tre coreografie senza precedenti nella storia del Costanzi, mai presentate prima. Questo conferisce un valore aggiunto al programma, dedicato alla memoria dell’étoile e Direttrice Onoraria della Scuola di Danza del Teatro dell’Opera Elisabetta Terabust, scomparsa lo scorso 5 febbraio.
Kylián, Inger e Forsythe erano «coreografi da lei tanto apprezzati». Lo ricorda Eleonora Abbagnato (Direttrice del Corpo di Ballo) nel messaggio audio diffuso a inizio spettacolo, doveroso omaggio alla Terabust.
Il trittico ha come fili conduttori sicuramente il rapporto di coppia, la fisicità, l’esplorazione del corpo e le sue sfaccettature, da quelle sensuali a quelle più violente.
Petite Mort di Jiří Kylián apre il trittico
Petite Mort di Jiří Kylián è una creazione del 1991, composta dal coreografo praghese in occasione del Festival di Salisburgo. I dodici ballerini (sei uomini e sei donne) portano in scena un ventaglio di emozioni che spazia dalla sensualità all’aggressività. Tra le mani hanno dei fioretti: il loro fendere l’aria genera un fruscio che diventa parte integrante della musica. In sottofondo l’Adagio e l’Andante dei concerti per pianoforte KV 488 e 467 di Wolfgang Amadeus Mozart. Così descriveva lo stesso Kylián la sua coreografia:
‘Petite mort’ è un’espressione poetica e significativa per descrivere l’orgasmo di un rapporto sessuale. In francese, e in altre lingue, questa percezione è descritta come ‘piccola morte’. E così può essere. Nel momento di massimo piacere, o nel momento in cui si sta potenzialmente generando una nuova vita, siamo portati a ricordare che le nostre esistenze sono relativamente brevi e che la morte non è mai troppo lontana.
Tutti i ballerini hanno costumi essenziali color carne, che richiamano la nudità. La coreografia si apre con un assolo dei soli uomini, senza base musicale, poi insieme alla musica entrano in scena anche le donne. Ed è proprio la coppia il fulcro di questa danza: la celebrazione di due corpi fusi in una sola sinergia. Il passo a due è intenso, sono le linee di braccia e gambe a dominare i movimenti. I corpi si spostano sul palcoscenico mantenendo sempre il loro contatto e prevalentemente seguendo linee orizzontali. Se i ballerini si separano è solo per poi ricongiungersi nuovamente: un salto, una presa, una posizione, mai nulla è fatto come singolo individuo, la presenza percepita dallo spettatore è sempre di due elementi.
Walking Mad di Johan Inger
Johan Inger realizza nel 2001 Walking Mad, avendo come punto di riferimento il Bolero di Maurice Ravel, a cui si aggiunge nella seconda parte il piano di Arvo Pärt. Il titolo, invece, gli fu ispirato da una celebre citazione di Socrate: «Le nostre più grandi benedizioni arrivano a noi per via della follia». È forse il lavoro più famoso del coreografo svedese allievo di Jiří Kylián. L’elemento che subito balza agli occhi è la presenza di un muro: lo spazio scenico in cui si muovono i ballerini, infatti, è concepito come un “al di qua” e un “al di là” da esso. È una parete che divide, che si muove coi ballerini, che li mette in comunicazione o li separa. Sei uomini e tre donne in scena, vestiti in modo meno essenziale rispetto all’esibizione precedente (e a quella successiva): cappelli, camicie, abitini per le donne e giacche per gli uomini. E poi vestiti sgualciti, ma colorati, lasciati a terra. Walking Mad è un racconto e il muro sicuramente richiama simbolicamente le barriere che dividono costantemente le persone, uomini e donne stessi. L’andamento della coreografia, infatti, ricorda le fasi di un rapporto sentimentale, dall’innamoramento alla disillusione all’abbandono.
Walking Mad è un viaggio in cui incontriamo le nostre paure, i nostri desideri e la leggerezza dell’essere.
Johan Inger
Artifact Suite di William Forsythe
A chiudere il trittico è Artifact Suite di William Forsythe: si articola in due parti. Nella prima, danzata sulla Ciaccona BWV 1004 (Partita per violino solo n°2 in re minore) di Johann Sebastian Bach, due coppie si esibiscono in complessi passi a due. Intorno a loro tutti gli altri ballerini formano una specie di cornice umana e compiono movimenti più essenziali. Il sipario si abbassa più volte, per poi rialzarsi mostrando di volta in volta un nuovo quadro e nuove posizioni. Gli occhi si riempiono di una luce color oro, che poi lascia spazio a una luce bianca, più fredda, nella seconda parte. Su musica di Eva Crossmann-Hecht si esibisce l’intero Corpo di Ballo: è un momento di coralità basato su movimenti a specchio e ripetuti. L’insieme dei corpi in movimento è di forte impatto e mette in risalto non solo le doti di ogni singolo danzatore in scena. Si configura come un omaggio stesso alla danza classica e alla tecnica accademica.