Internet Haters (I.H.)

Internet Haters (I.H.)
Internet Haters (I.H.)
con questo termine di origine anglosassone gli esperti di comunicazione e la comunità scientifica internazionale definiscono persone che dietro un alias virtuale o reale, utilizzano le varie piattaforme internet per esprimere il loro odio verso altre persone, verso alcune specifiche categorie di soggetti, verso un’idea, verso un oggetto.
In italiano si potrebbe tradurre con “quelli che odiano su internet”.
Quello che proveremo a fare con questo scritto è dare delle motivazioni sociali e culturali che facciano comprendere perché queste persone esprimono il loro odio via internet e, al contempo, proveremo ad identificare alcune categorie di soggetti che possano dare delle spiegazioni, non esaustive, a questo fenomeno in forte crescita internautica.
Gli Internet Haters (I.H.), di fatto, sono tutte quelle persone che usualmente utilizzano i social e le varie piattaforme internet per “eruttare” il loro odio nei confronti di un’altra persona, nei confronti di un luogo, di un film, di un libro, di uno spettacolo, di un artista, di un’idea, etc…
nickname che queste persone utilizzano qualche volta sono reali, nel senso che utilizzano il loro vero nome, molto più spesso sono nomi inventati per non essere riconoscibili e rintracciabili.
Gli Internet Haters (I.H.) non sono però persone che possono essere classificate all’interno di un’unica specifica categoria di soggetti. Recenti studi e ricerche sociologiche realizzate da diverse università, sia italiane che straniere, hanno portato alla conclusione che gli Internet Haters (I.H.) rappresentano tutti gli strati sociali, culturali, professionali, politici, religiosi, etnici, etc.. Questo per dire che gli Internet Haters (I.H.) non si possono etichettare in un’unica categoria socio-culturale, né si possono classificare all’interno di una specifica patologia psichiatrica, qualora si volesse definirli clinicamente.
Altri esperti di comunicazione internautica e di psicologia sociale, definiscono gli Internet Haters (I.H.) come utenti web che esprimono odio e insulti ogni volta che non sono d’accordo con qualcosa o qualcuno. Attraverso le loro azioni sul web e i loro commenti postati nei vari portali social, cercano di diffondere opinioni negative e di attaccare violentemente una persona, un’idea, un oggetto.
Gli Internet Haters (I.H.) possono anche vestire i panni dei cosiddetti “Tròll” cioè utenti internet che con le loro azioni web intervengono all’interno di determinate comunità virtuali in modo provocatorio, offensivo, insensato, senza argomenti credibili o convincenti, al solo scopo di delegittimare qualcuno o qualcosa, disturbare le normali comunicazioni e interazioni tra gli utenti di quella determinata piattaforma o gruppo di discussione virtuale, provando a creare scompiglio, confusione, delegittimazione, disorientamento.
Sia gli Internet Haters (I.H.) che i Tròll vengono definiti come soggetti bigotti, razzisti, pusillanimi, con un livello culturale basso o bassissimo (anche se in possesso di diploma di laurea o di titoli di studio!), insicuri, con una struttura di personalità fragile e adolescenziale, con una scarsissima autostima, con una identità personale debole, che godono nel gettare veleno, delegittimazione e scompiglio sul popolo di Internet.
Un’altra variante degli Internet Haters (I.H.) è rappresentata da coloro che nei portali social segnalano anonimamente al gestore del portale (Facebook tra tutti) come spam o come post violenti, illegali o impropri, quei post che non condividono e verso i quali nutrono un totale dissenso. È un modo questo estremamente pusillanime di colpire indirettamente determinati post attraverso un’azione di segnalazione falsa per fare in modo che il loro “utente-bersaglio” venga bloccato o limitato nelle azioni di utilizzo della sua pagina web, dai gestori del portale (tra tutti, per esempio, Facebook).
Gli Internet Haters (I.H.) sono persone che odiano e aggrediscono proprio perché non hanno argomenti per contrastare dialetticamente e culturalmente l’oggetto che scatena in loro paura e timore. Non hanno argomenti e quindi odiano offendendo e cercando di distruggere virtualmente l’oggetto del loro odio. Questo aspetto comportamentale, che si manifesta con delle azioni virtuali (post, messaggi, tentativi di bloccare quello specifico profilo, etc…), in un certo qual modo, per gli Internet Haters (I.H.), rappresenta una sorta di regressione ancestrale all’“uomo delle caverne”, ai trogloditi dell’età della pietra per intenderci, dove si presume che i contrasti e le diatribe tra membri della stessa tribù, venissero decise a favore di chi urlava maggiormente e/o di chi faceva baccano in modo più fragoroso.
Nell’età della pietra, sostengono alcuni esperti del settore, non contavano nulla le reali ragioni dell’uno o dell’altro, ma l’aveva vinta semplicemente chi urlava nella faccia dell’altro in modo più poderoso e assordante. Ecco, da questo punto di vista, l’Internet Haters (I.H.) è colui che inconsciamente ragiona proprio come un troglodita: «il mio odio nei tuoi confronti lo esprimo gridando virtualmente offese e calunnie per dimostrare a tutto il popolo web che, rispetto alla tua idea e alla tua persona, io ho “ragione” e tu “torto”!»
Internet Haters (I.H.)
Quello che i recenti studi di questo fenomeno hanno rilevato è che tutti gli Internet Haters (I.H.) sono accomunati dallo scarso livello di tolleranza per tutto ciò che è diverso da loro, per tutto ciò che non conoscono, per tutto ciò che immaginano minaccioso nei loro confronti, nei confronti degli individui della loro stessa categoria sociale e culturale e, per certi versi, per tutto ciò che immaginano minaccioso nei confronti della loro famiglia e dei loro cari. Questa è la motivazione principale che fa scaturire in questi soggetti l’odio che li porta ad utilizzare internet per cercare di distruggere virtualmente quanto risulta loro una potenziale e pericolosa minaccia.
In sintesi, seguendo questo ragionamento, l’Internet Hater (I.H.)  è mosso dalla “paura”.
Ma cos’è la paura?
Treccani ci spiega che la «Paura è uno stato emotivo consistente in un senso di insicurezza, di smarrimento e di ansia di fronte a un pericolo reale o immaginario o dinanzi a cosa o a fatto che sia o si creda dannoso; più o meno intenso secondo le persone e le circostanze, assume il carattere di un turbamento forte e improvviso quando il pericolo si presenti inaspettato, colga di sorpresa o comunque appaia imminente.»
Ebbene, la definizione di Treccani ci aiuta ad inquadrare gli Internet Haters (I.H.) all’interno di una macro categoria di persone che è quella di “coloro che hanno paura e per ciò odiano”.
Gli Internet Haters (I.H.), da questa prospettiva, sono tutte persone che certamente hanno paura (inconsciamente o consciamente) di qualcosa. L’odio in questi soggetti nasce dalla paura nei confronti della categoria di persone, dell’oggetto, dell’idea che temono, e proprio perché temuto va prima odiato, poi attaccato e infine distrutto virtualmente con tutti i mezzi di cui dispongono; nello specifico, l’attacco e il tentativo di distruzione di chi si ha paura, viene messo in atto attraverso i mezzi di comunicazione delle nuove tecnologie informatiche che comportano uno scarso rischio di essere individuati e di essere a loro volta attaccati. Un’azione, questa, mossa da soggetti codardi in quanto l’attacco messo in atto non prevede o consente un contradditorio ed un “uscire allo scoperto” manifestando le proprie ragioni rispetto al tentativo di distruggere chi si odia o di motivare da cosa nasce l’odio; bensì è un attacco mancino e clandestino di chi non vuole mettere a repentaglio la propria persona e la propria identità: “lancio la pietra per colpirti nascondendo virtualmente subito dopo la mia mano”.
Uno degli interessanti risvolti di questo fenomeno è quello politico. Alcuni soggetti che vogliono accelerare la loro carriera politica, infatti, sapendo ben cogliere la frustrazione e l’odio di centinaia di migliaia di persone verso una specifica categoria di soggetti, ovvero, verso un determinato soggetto pubblico, diventano e vestono i panni del “paladino demolitore” di questi “pubblici bersagli”, ritrovando l’immediato consenso e sostegno virtuale di tutti coloro che la pensano come lui.
Classici esempi riportati dalla letteratura del settore, sono le azioni di odio razziste e xenofobe.
Per continuare il nostro ragionamento è opportuno richiamare qui le definizioni di razzismo e di xenofobia facendoci aiutare ancora una volta da Treccani.
«Razzismo. Ideologia, teoria e prassi politica e sociale fondata sull’arbitrario presupposto dell’esistenza di razze umane biologicamente e storicamente «superiori», destinate al comando, e di altre «inferiori», destinate alla sottomissione, e intesa, con discriminazioni e persecuzioni contro di queste, e persino con il genocidio, a conservare la «purezza» e ad assicurare il predominio assoluto della pretesa razza superiore: il razzismo nazista, la dottrina e la prassi della superiorità razziale ariana e in particolare germanica, elaborata in funzione prevalentemente antisemita; il razzismo della Repubblica Sudafricana, basato sulla discriminazione razziale sancita a livello legislativo e istituzionale (v. apartheid); il razzismo statunitense, riguardo a gruppi etnici di colore, o anche a minoranze diverse dalla maggioranza egemone. Più genericamente, complesso di manifestazioni o atteggiamenti di intolleranza originati da profondi e radicati pregiudizî sociali ed espressi attraverso forme di disprezzo ed emarginazione nei confronti di individui o gruppi appartenenti a comunità etniche e culturali diverse, spesso ritenute inferiori: episodî di razzismo contro gli extracomunitari.»
«Xenofobia. Sentimento di avversione generica e indiscriminata per gli stranieri e per ciò che è straniero, che si manifesta in atteggiamenti e azioni d’insofferenza e ostilità verso le usanze, la cultura e gli abitanti stessi di altri paesi, senza peraltro comportare necessariamente una valutazione positiva della propria cultura, com’è invece proprio dell’etnocentrismo; si accompagna spesso a un atteggiamento di tipo nazionalistico, con la funzione di rafforzare il consenso verso i modelli sociali, politici e culturali del proprio paese attraverso il disprezzo per quelli di altri, ed è perciò incoraggiata soprattutto dai regimi totalitari.»
Internet Haters (I.H.)
Non occorre approfondire molto questa parte del ragionamento – la letteratura è strapiena di saggi e di scritti sui temi del razzismo e della xenofobia utilizzati cinicamente per fini politici – perché tutti quanto sappiamo bene, dalla storia e dalla politica recente e passata, che molti partiti politici, di oggi e di ieri, sono nati e nascono proprio da sentimenti di incontrollato e viscerale razzismo e/o xenofobia.
L’elemento che ci interessa qui è invece quello della “paura”. Anche in questi casi, nei casi di odio internautico mossi dal razzismo e dalla xenofobia, quello che muove l’azione dell’Internet Haters (I.H.) è la paura.
Per coloro che sono mossi da sentimenti razzisti la paura nei confronti di una presunta “razza inferiore” che possa prendere il sopravvento e inquinare la presunta “razza pura” – della quale l’Internet Haters (I.H.) ritiene di far parte! – alla quale assicurare, con le loro azioni sul web, il “predominio”.
Per coloro che sono mossi da sentimenti xenofobi, la paura nei confronti dello “straniero” e di tutto ciò in cui i nostri Internet Haters (I.H.) non si riconoscono dal punto di vista della cultura, dei costumi, delle usanze, della politica, della religione, etc..
È, in estrema sintesi, la “paura” che domina gli Internet Haters (I.H.).
La loro paura nei confronti di qualcosa che immaginano – in una sorta di persecuzione allucinatoria – minaccioso e pericoloso. La paura in qualcosa che possa accadere imminentemente e, per questo, la loro re-azione deve essere tempestiva e violenta proprio perché possa frenare, arrestare e distruggere l’“oggetto” della loro paura.
Un oggetto che, come abbiamo visto, può assumere “connotati” e caratteristiche diversi: un “popolo”; una “razza”; una “cultura”; un’idea; un personaggio; un evento; etc.. Gli Internet Haters (I.H.) sono soggetti nei quali la “paura” germoglia dall’evidente ignoranza, dalla scarsa cultura, dalla scarsa tolleranza, dall’insicurezza, da una personalità facilmente vulnerabile, da una identità personale rimasta infantile o adolescenziale, da torti reali o presunti subiti in passato e mai metabolizzati.
Gli Internet Haters (I.H.), in sostanza, sono soggetti vittime della loro stessa paura, della loro scarsa cultura ed esperienza di vita, della loro personalità incompiuta e facilmente vulnerabile.
È proprio questo il motivo per il quale molti degli Internet Haters (I.H.) si identificano, per compensare la loro identità fragile e vulnerabile, con determinati gruppi sociali o con determinate ideologie: con la propria squadra sportiva, con un gruppo ideologico estremista, con una nazione, con un gruppo sociale, con un partito politico, con un gruppo religioso, etc.. Rinunciano pertanto alla loro identità incompiuta per sostituirla integralmente con quella del gruppo o dell’ideologia che hanno scelto e con il quale si identificano totalmente vestendone pubblicamente, per esempio, anche i caratteri identificatori: la maglia di quella squadra sportiva, abiti che richiamano vistosamente la bandiera della propria nazione, accessori che portano il simbolo di quel gruppo ideologico, simboli e gadget che richiamano il gruppo religioso o politico, tatuaggi simboli e rappresentativi di quella specifica identità ideologica, etc..
È molto interessante il docu-film “The Internet Warriors” (pubblicato su YouTube nel marzo del 2017, il cui link troverete alla fine di questo capitolo) ideato e realizzato dal regista svedese Kyrre Lien che nel Natale del 2014, un po’ per curiosità, un po’ per gioco, iniziò a ricercare su internet i commenti che esprimevano odio e intolleranza.
Lien racconta di essere rimasto affascinato dai tantissimi commenti che esprimevano odio ma che esprimevano anche tanta ignoranza da parte di questi Internet Haters (I.H.). Ignoranza perché leggendo i loro commenti, Lien si accorse che queste persone conoscevano poco quello che attaccavano. L’azione di odio espressa attraverso i social e internet era mossa da pregiudizi, da pre-concetti, da stereotipi mai messi in discussione e mai sindacati da parte di questi Internet Haters (I.H).
L’“assioma” che evidenziò Lien fu quello di un forte pregiudizio nei confronti di una categoria, di un soggetto, di un oggetto, di un’idea; pregiudizio dal quale scaturivano tutte le azioni di odio e di intolleranza internautica espressa attraverso decine o centinaia di commenti distruttivi e di odio feroce.
Per realizzare il suo documentario, Lien iniziò a guardare i profili Facebook di questi Internet Haters (I.H.) e si accorse che erano persone apparentemente normali, che avevano una famiglia, un lavoro, una casa, ma che online si trasformavano in terribili e spietati Internet Haters (I.H.). Iniziò così la sua ricerca in questo mondo. Lavorò per ben tre anni all’interno di questo universo e alla fine realizzò un interessante documentario che prevede l’intervista dal vivo di queste persone anche per vedere se, intervistate dal vivo e offline, avrebbero espresso lo stesso odio e la stessa intolleranza nei confronti di quello che normalmente attaccavano con i loro commenti online.
Lien individuò i commentatori più estremisti e che frequentavano internet più assiduamente; iniziò a contattare diverse di queste persone che per ben tre anni aveva seguito online. La maggior parte di loro, però, non fu disposta a farsi intervistare dal vivo e con una telecamera. Già questo dato è interessante proprio perché l’elemento del rimanere anonimi, in una posizione da pavidi, viene confermata dai contatti e dalle risposte che Lien ebbe via internet da queste persone.
Solo pochi di loro si resero disponibili ad essere intervistati e ripresi da Lien con una telecamera, e sono per lo più quegli Internet Haters (I.H.) che hanno delle apparenti “ragioni” di odio verso determinate categorie di persone o di classi sociali. In sintesi, le “ragioni” di queste persone che hanno accettato di essere intervistate, appartengono alle categorie che abbiamo definito con motivazioni razziste o xenofobe.
Lien, dopo aver conosciuto personalmente gli Internet Haters (I.H.) che si sono resi disponibili per il suo documentario, dopo essere stato nelle loro case, dopo aver parlato con loro ed essersi confrontato rispetto ai temi di odio, dopo aver girato le riprese, ha fatto alcune interessanti considerazioni su queste persone conosciute realmente: «Moltissime di queste persone vivono nella solitudine, sono consapevoli che la società le ha tradite e lasciate ai margini. Molte di queste persone sono state vittime di bullismo. Alla fine – continua Lien – ho imparato che queste persone sono in grado di cambiare se noi li aiutiamo a cambiare. Non possiamo chiudere gli occhi e pretendere che queste persone non esistano se vogliamo cambiare il modo di discutere e di comunicare online. È importante ascoltare queste voci, adesso
Credo che le parole di Lien, dette in modo spontaneo e senza sovrastrutture culturali interpretative di stampo sociologico o clinico, siano le migliori per chiudere questo articolo sugli Internet Haters (I.H.), che lascia chiaramente tanti punti di domanda e tante questioni aperte per ulteriori confronti e discussioni che – spero – vengano ripresi e stimolati dai lettori con i loro commenti su questo articolo, ma anche da altri studiosi e ricercatori.
Il presente scritto è inserito in un Saggio, ben più vasto, che coglie ed evidenzia tutti gli “istinti”, per lo più repressi, che questo potente strumento di comunicazione collettiva – Internet – riesce a scatenare in molti utenti, spesso insospettabili, trasformandoli in “serial”…
Il Saggio affronta anche altri temi quali:
Internet Lovers;
Sex extortion;
Ultras da tastiera;
ecc…
Ringraziamo vivamente Andrea Giostra realizzatore del Saggio alla stesura del quale hanno contribuito:
Roberta Arnone, scrittrice, attrice, reader influencer;
Paolo Battaglia La Terra Borgese, critico d’arte;
Joey Borruso, giornalista, blogger, reader influencer;
Ester Campese, pittrice, blogger, reader influencer;
Daniela Cavallini, giornalista, esperta in formazione risorse umane;
Maria Celesia, lettrice, blogger, reader influencer;
Mirko Cervelli, giornalista, opinionista;
Andrea Giostra, psicologo, blogger, esperto in comunicazione;
Cristina Pace, Cris alias Krilli, blogger, traduttrice, scrittrice, reader influencer;
Anna Profumi, scrittrice, blogger, reader influencer;
Laura Tarani, psicologa, giornalista, blogger, reader influencer;
Emanuela Trovato, attrice, coach di voce e comunicazione, trainer per la formazione manageriale;

link per l’acquisto online della versione e-book:

https://stores.streetlib.com/it/andrea-giostra/internet-haters-e-trolls

“The Bad Batch”

The Bad Batch

“The Bad Batch”

Recensione di Andrea Giostra

Presentato il 6 settembre 2016 in concorso alla 73ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, “The Bad Batch”, scritto e diretto da Ana Lily Amirpour, esce nelle sale cinematografiche il 23 giugno 2017 e, da poche settimane, distribuito dal portale Netflix.

Il film è la puntuale risposta della settima arte alla proposta di Donald Trump di creare l’invalicabile muro tra il Texas ed il Messico per proteggere gli Stati Uniti d’America dalla massiccia immigrazione clandestina de “The bad batch”, “la cattiva sfornata”, cioè gli indesiderabili uomini e donne messicani che – altrimenti – potrebbero “inquinare” la purezza del popolo americano.

“Viviamo tutti qui. Non eravamo persone abbastanza buone, abbastanza intelligenti, abbastanza giovani”.

Sono le parole che accolgono Arlen in “The Bad Batch”.

“Tutte le cose che hai fatto nella tua vita – dice The Dream (Keanu Reeves) alla protagonista Suki Waterhouse (Arlen) – ti hanno portato qui con me”.

“The Bad Batch” da esiliare oltre una poderosa rete metallica protetta a vista da militari del governo statunitense che apre le porte ad un deserto ammaliante nei colori e nel paesaggio; crudele e violento nelle popolazioni che lo abitano come sopravvissuti di un evento post-bellico che ricorda prepotentemente, tranne nella fotografia, “The Road” (2009) di John Hillcoat, tratto dal bellissimo omonimo post-apocalittico best seller di Cormac McCarthy pubblicato negli USA nel 2006; film con uno straordinario Viggo Mortensen (“Man” nel film di Hillcoat), che nel nostro film viene “sostituito” da un sempre impeccabile Jim Carrey nel ruolo di The Hermit.

The Bad Batch

Il genere è “romantic-drama-horror-thriller-political”, certamente non facile da inquadrare all’interno dei soliti canoni cinematografici più di successo perché tratta con efficacia narrativa diversi temi sociali e politici insieme. La sovrapposizione apparentemente impropria di più generi cinematografici, sia di contenuti che di questioni sociali, ne fanno un prodotto originale e interessante e, al contempo, un eccellente lavoro cinematografico.

Il cast di attori è stellare: Suki Waterhouse, Jason Momoa, Giovanni Ribisi, Jim Carrey, Keanu Reeves, ed altri ancora.

Gli ingredienti della sceneggiatura sono tantissimi, e non sempre la narrazione filmica riesce a farli emergere nella loro completezza lasciandoli come domande alle quali lo spettatore dovrebbe dare le sue risposte. Ed anche questo approccio, le domande incompiute, è interessante proprio perché non “confeziona” risposte scontate e prevedibili da far ingoiare allo spettatore.

Arlen (Suki Waterhouse) è una giovane e bellissima ragazza, abbandonata nel deserto del Texas, che delimita con una impenetrabile rete metallica protetta da soldati armati del governo, il confine tra la civiltà e l’orda. Viene catturata da una spietata banda di cannibali, guidati dal disegnatore Miami Man (Jason Momoa), che la tiene incatenata finché non riesce a fuggire per trovare rifugio nella più “civile” comunità di “The Dream”.

Titolo originale: “The Bad Batch”

Regia di Ana Lily Amirpour

Produzione Megan Ellison, Danny Gabai, Sina Sayyah

 

Trailer IT: https://youtu.be/OUqfP1S-9ok

IMDb: http://www.imdb.com/title/tt4334266/

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Codice Criminale

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Recensione di Andrea Giostra

Uscito nelle sale cinematografiche italiane il 28 giugno 2017, il film di produzione britannica, diretto da Adam Smith con l’interessante sceneggiatura di Alastair Siddons, è un prodotto cinematografico bello e intelligente. La narrazione scorre fluida e mai banale. Intrigante e stimolante. I temi trattati sono difficili e pericolosi al contempo.

Il rischio di cadere nel banalismo e nel razzismo sociale, sono ad ogni angolo, ad ogni passo, in ogni fotogramma. Non succede mai. Questi temi vengono trattati con lucida e consapevole competenza, accompagnati da una recitazione magistrale, che penetrano nel cuore dello spettatore per poi trasferirsi nella sua mente che inizia a riflettere su quello che ha appena finito di vedere.

Il doppiaggio italiano non può certamente tenere conto dello slang inglese e dei dialetti locali utilizzati nella produzione originale, che caratterizzano il film come un prodotto nel quale il neo-realismo – se così possiamo chiamarlo prendendo in prestito un concetto assai italiano – è molto forte e ottimamente strutturato per donare allo spettatore inglese la consapevolezza del prelibato gusto delle differenze culturali e sociali tra etnie diverse e tra strati socio-culturali assai distanti tra loro.

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Questa è già una prima grave pecca della distribuzione italiana che probabilmente avrebbe dovuto doppiare il film utilizzando qualcuno dei dialetti italiani che certamente non mancano. Far parlare a tutti i protagonisti del film un perfetto italiano, priva il nostro spettatore di sfumature sociali e culturali che nel film hanno fortissimi significati narrativi che generano una serie infinita di spontanei pregiudizi e di scontati preconcetti.

In sostanza, per comprendere il concetto, è come doppiare un attore italiano che impersona un rom di origine rumena con il perfetto italiano di Roberto Benigni. Non credo che una maestra italiana si sognerebbe mai di espellere il piccolo Roberto Benigni da una scuola privata perché non ha fatto bene i compiti e non parla bene l’italiano! Ebbene, nel film doppiato per l’Italia, tutto questo allo spettatore italiano è stato candidamente derubato!

Codice Criminale

E ancora. Il titolo originale del film è “Trespass Against Us”, tratto dalla seconda parte della frase del Padre Nostro “forgive us our trespasses as we forgive those who trespass against us”, “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Il titolo del film lo potremmo tradurre con “Li Rimettiamo ai Nostri Debitori”.

Ebbene, questo titolo è geniale e trasmette allo spettatore inglese un messaggio fortissimo e verissimo. Leggerlo prima di entrare nella sala cinematografica, “condiziona” la visione con delle aspettative magnificamente confermate nel finale della narrazione. Alastair Siddons e Adam Smith, artisti entrambi eccellenti, anche per questo elemento creano un’opera d’arte cinematografiche della quale componente lo spettatore italiano viene privato, derubato.

Codice Criminale 

Non si comprende come mai la distribuzione italica, che in questi casi ci conferma il suo imprevedibile talento nell’imbrattare un’opera d’arte con uno schizzo di incompetenza, riesca quasi sempre a derubare lo spettatore italiano dei piaceri stilistici dei bravi artisti oltreconfine. In realtà, se volessimo raccontarlo con una metafora in linea con l’ardire dei distributori italiani, è come affidare loro il prezioso “The Hay Wain” del notissimo pittore britannico di fine ottocento John Constable, ed esporlo in una prestigiosa galleria italiana con la didascalia che recita: “Il carro di fieno” (1821) di Giovanni Poliziotto!

Codice Criminale

Il film racconta una molto verosimile storia di una famiglia nomade allargata dov’è il padre Colby (Brendan Gleeson) a fare da padre-padrone e a decidere con saggezza e con sottile furbizia le sorti di tutto il “branco”. Rubare e non rispettare le leggi dello Stato che li ospita – è noto a tutti, anche ai diabolici analfabeti dell’integrazione a tutti i costi di culture assai distanti da quelle occidentali-cristiane – è un valore da trasmettere da padre in figlio, da figlio in nipote.

Non sottomettersi alle leggi e alle autorità costituzionali è quello che rende veramente degno di rispetto, all’interno della loro comunità, un membro della tribù. Occorre fingere, se presi in flagranza di reato, mentire sempre e comunque, rinnegando apparentemente la propria cultura e dando la sensazione di rispettare la loro, quella degli ospitanti. È a questo punto che entra in scene un interessante elemento narrativo impersonato dal bravissimo furfante, pilota di auto e ladro delle stesse Chad (Michael Fassbender). È qui che si sviluppa la parte di racconto più interessante e più vera per lo spettatore che nella vita non vede quello che c’è da vedere, e non sente quello che c’è da sentire.

Ma questi messaggi è meglio non scriverli qui, ma lasciare al nostro lettore il libero arbitrio di comprenderli o non comprenderli guardando il film. Quello che possiamo scrivere è che il valore della famiglia, l’amore per la propria donna, lo sconfinato senso di protezione dei propri figli, varca i confini di tutte le differenze culturali e sociali, perché geneticamente viscerali in qualsiasi esser umano sano di mente.

Codice Criminale

Il finale ci fa comprendere perché gli autori abbiano scelto il titolo che in Italia è stato deturpato.

>>Commento di Piero Casoli: In coda alla puntuale ed ottima recensione di Andrea Giostra vorrei aggiungere un mio commento che, oltre a dimostrare ancora una volta la “democrazia culturale” che regna nel nostro giornale, può essere spunto di commenti altrettanto democratici:

Il film è in realtà il racconto dello scontro tra due generazioni differenti, tra il capofamiglia autoritario rispettoso delle tradizioni e il primogenito più moderno, orientato al futuro e fortemente legato alla sua famiglia. 

La sceneggiatura presenta forse alcune lacune però magistralmente superate grazie alla ottima recitazione dei due protagonisti Gleeson e Fassbender.

Codice Criminale è un racconto “sbilanciato” che non raggiunge la perfetta ed equilibrata armonia tra l’azione e l’introspezione nei personaggi, così distanti tra loro, per conflitti generazionali.<<

 Titolo originale “Trespass Against Us”; traduzione: “Li Rimettiamo ai Nostri Debitori”.

Regia di Adam Smith.

Sceneggiatura originale di Alastair Siddons.

Con Michael Fassbender, Brendan Gleeson, Sean Harris, Rory Kinnear, Lyndsey Marshal, George Smith, Kingsley Ben-Adir.

Trailer IT: https://www.youtube.com/watch?v=HOymkTK31aw

Andrea Giostra

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Caterina Guttadauro La Brasca

Caterina Guttadauro La Brasca

 

Caterina Guttadauro La Brasca

La Barriera Invisibile“, Editoriale Programma Ed., Treviso, 2016

Recensione di Andrea Giostra

«La più grande speranza di Diana è che Ilaria, leggendo questo libro, possa arrivare alla conclusione che quello che le unisce è molto di più di quello che le divide.»

È una storia di madri e di figlie, di amore ancestrale, materno e di risentimenti adolescenziali filiali, di amorevoli prepotenze genitoriali e di voraci costruzioni di giovani identità femminili, di sofferenze e di dolori, di rimorsi e di rimpianti, di ansie adulte e di desideri di libertà giovanili.

Storie uniche e irripetibili come tante tra madri e figlie. Storie di una madre visceralmente siciliana e di una figlia nata e cresciuta in continente, come si diceva in Sicilia in quel triste e incerto dopoguerra meridionale che fu quello voluto dalla politica repubblicana post-monarchica del referendum dei partigiani per cacciare dall’Italia i Savoia.

Una Sicilia ancora colma di tabù sul sesso femminile e sulle libertà della donna casalinga e madre non per scelta. Una storia vissuta in settentrione, ma impregnata di poderosi ricordi ed emozioni siciliane. Un fitto turbinio di pulsioni ed un intreccio di vite vissute, di vite da costruire che iniziano dalla Sicilia e germogliano vigorose in quello che fu il ducato di Modena e Reggio.

Caterina Guttadauro La Brasca

Nel romanzo di Caterina Guttadauro La Brasca scrive Diana della figlia Ilaria: «È stata una bambina serena, una ragazza desiderosa di conoscenza, una donna complessa con un vissuto doloroso, ma una donna che ha anche vinto il dolore e, ancor più, una donna che ha capito il valore e la positività della sofferenza

Senza saperlo, perché dovrà ancora costruirsi una buona cultura che sarà quella scientifica da adulta affermata e di successo, Ilaria ha percorso la saggia via segnata dal più grande degli scienziati del ventesimo secolo: «La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie.

Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere superato. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e disagi, inibisce il proprio talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi è l’incompetenza. Il più grande inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita ai propri problemi.»

Albert Einstein, “Il Mondo come Io lo Vedo”, 1934.

E qui inizia magnifico il racconto serrato di Caterina Guttadauro La Brasca, un narrare … alla figlia immaginata che anelante ascolta attenta … passionale, colorato, che produce profumi siciliani, che fa sentire il sole bruciare la pelle, che immerge il lettore in un clima tiepido d’inverno e sciroccoso d’estate.

Un confessare alla figlia amata sin dal concepimento che … «È così, io l’ho capito quando, dopo aver perso mio figlio, mi sono accorta di volerne subito un altro. Al momento del parto, alla domanda se volevo alleviare i dolori del travaglio, dissi no con convinzione per paura di nuocerti. Dopo averti vista, seppur stremata, ringraziai Dio per avermi dato una bimba bella e sana.» … era ben consapevole d’avere ricevuto un dono prezioso dopo un dolore straziante, prima di una malattia impietosa che per volere divino avrebbe perso la presa.

Un racconto, quello di Caterina Guttadauro La Brasca, che spesso ritorna in Sicilia, la terra dell’autrice, la sua isola, la sua giovinezza di donna che ha perso i suoi affetti più cari, dove il perdono ha trionfato: «Non possiamo essere dei buoni genitori se non siamo stati dei buoni figli. Tra i sentimenti umani quello del perdono è il più nobile perché ci libera l’anima, ci ridà il possesso di persone e cose perdute. Ci fa capire che, sbagliare si può e perdonare non è un atto di debolezza.»

Un’opera da leggere questa di Caterina Guttadauro La Brasca per chi volesse vivere letterariamente emozioni profonde e vere, di quelle verità emotive che ci fanno sentire uomini e donne della nostra cultura, della nostra storia, delle nostre più antiche tradizioni, quelle tradizioni e quella cultura che hanno forgiato la nostra anima di uomini e donne della sponda nord del Mediterraneo.

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Andrea Giostra
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Walter Siti, “Resistere non serve a niente”

Walter Siti, “Resistere non serve a niente”

Walter Siti, “Resistere non serve a niente”

Recensione di Andrea Giostra

Vincitore del premio Strega 2013, il romanzo di Walter Siti non riesce mai a catturare il lettore con la sua narrazione. La storia è sì interessante e, per certi versi, nuova per il fatto di essere ambientata in Italia. La cronaca testimoniata e il romanzo narrato quasi mai riescono a fondersi per divenire convincenti e catturare il lettore che attende, fino alla fine, di sentire finalmente pulsare un battito d’emozione, di essere sfiorato da un accenno di pathos.

Nulla di tutto ciò.

Il romanzo sembra artisticamente costruito col solo obiettivo di partecipare e vincere un concorso letterario: ed in effetti questo risultato Walter Siti lo ha brillantemente raggiunto.

Resistere non serve a niente” non passerà certo alla storia della letteratura italiana, come arditamente si sono affrettati di scrivere alcuni critici letterari della stampa nostrana.

Walter Siti, “Resistere non serve a niente”

Walter Siti descrive asetticamente tante verità della politica, del malaffare, delle oligarchie, dell’incontrastato potere economico delle organizzazioni criminali, della finanza e delle potenti multinazionali. Ma sono verità note ed arcinote alla cronaca finanziaria, politica e criminale che il cinema e la letteratura internazionale percorrono già da diversi lustri.

Walter Siti, “Resistere non serve a niente”

L’originalità, se c’è, si trova, a cercarla, come detto, nell’ambientazione italica.

La democrazia è morta per lasciare il suo posto ai grandi interessi economico-finanziari delle potenti oligarchie internazionali? Se è questo il messaggio che vuole lanciare Siti, bisognerebbe chiedersi, prima ancora, se la democrazia in Italia è mai nata.

Ma questa, chiaramente, è un’altra storia e meriterebbe un altro racconto, un altro romanzo.

In due parole, il romanzo è deludente e assolutamente commerciale, nell’accezione “usa e getta” di Latouche.

Da leggere solo per chi volesse rendersi conto di come va scritto un romanzo noioso e scontato dall’inizio alla fine; tranne che nella interessante narrazione dell’esperimento scientifico di “economica casalinga” realizzato con sette “scimmie cappuccine” da Keith Chen, docente di economia dell’Università di Yale.

Ma almeno questa “sorpresa” la lasciamo al lettore che arditamente volesse acquistare questo libro!

Aggiungiamo noi, in coda alla recensione di Andrea Giostra, che il romanzo poggia e fa leva sui più scontati personaggi classici di una storiografia di questo genere: ricchissimi finanzieri senza scrupoli, feste “hollywoodiane”, escort incredibilmente belle che sono allo stesso tempo carnefici e vittime del sistema, la brutale presenza di una delinquenza spietata ed assassina, assoluta mancanza dei basilari valori sociali.

Walter Siti, “Resistere non serve a niente” Edizioni Rizzoli, Milano, 2012