Marco Polli: La fata birichina

Marco Polli: La fata birichina

 

Marco Polli: La fata birichina

Pubblichiamo, così come previsto dal Regolamento del nostro Concorso LetterarioIl Macinino” le opere dei primi tre classificati nelle Sezioni Poesie e Racconti.

L’autore Marco Polli, con la sua opera La fata birichina, si è classificato al 3° posto nella Sezione Racconti.

L’opera, gradevole, è un incantesimo scherzoso in un reame da fiaba in attesa del lieto fine.

Marco Polli: La fata birichina

 L’opera:

La fata Birichina

“Tanto tempo fa, nel reame di Arcadia sul Colle, in un grande palazzo sulla Montagna Incantata, viveva la fata Birichina, che era la Dama protettrice del villaggio di Ramoscello Fiorito.

La cura del suo palazzo era affidata agli gnomi e ai piccoli elfi delle campagne circostanti che si presentavano all’alba e scomparivano al calar del sole, mentre la sua unica compagnia era costituita da due vecchie oche, Abracadabra e Alakazam, che vivevano nel giardino del palazzo.

Il rappresentante di Ramoscello Fiorito era, invece, il Sindaco che i cittadini sceglievano tra gli abitanti più meritevoli durante la Festa dell’Arcobaleno, che si svolgeva a inizio primavera. Da molti anni era confermato nella carica Mastro Quercia, che era la memoria storica del villaggio, amministrava coscienziosamente le risorse di Ramoscello Fiorito e impartiva la giustizia con equità, oltre a curare le richieste che i suoi concittadini rivolgevano, periodicamente, alla Dama della Montagna.

A turbare la quiete di Ramoscello Fiorito, a sentire le dicerie dei paesi confinanti, sul reame di Arcadia sul Colle aleggiava un incantesimo scherzoso per cui, ogni volta che la Fata Birichina chiamava le oche, appena l’eco della Montagna Incantata risuonava con il suo Abracadabra Alakazam, subito, nel villaggio, capitava qualcosa di buffo a chi, in quel momento, era occupato in qualche attività. Poteva così accadere, per esempio, che il giardiniere che aveva appena finito di potare le siepi le ritrovasse subito cresciute o che il cuoco dovesse cucinare nuovamente le pietanze che aveva appena messo in tavola.

La cosa attirava a Ramoscello Fiorito molti curiosi, desiderosi di divertirsi per tornare alle proprie case con qualcosa da raccontare, ma non vi era nessuno che fosse disposto a trasferirsi a vivere nel villaggio. Mastro Quercia era ovviamente disperato per il lungo protrarsi di questa situazione che affliggeva Ramoscello Fiorito ormai da tempo immemore e ogni qualvolta si presentava al palazzo della fata Birichina per chiedere udienza perorando la causa dei suoi concittadini ormai scoraggiati, la stessa si divertiva a chiamare le oche per fare in modo che al villaggio ottenessero il risultato opposto di quello sperato.

Un giorno che Mastro Quercia, nel corso di uno degli incontri di palazzo, si accorse che le oche, appena si sentivano chiamare, correvano subito dalla loro padrona sperando così che la smettesse, perché capivano che il suo intento era di creare un magico disagio e le fece notare che pure i due pennuti prendevano le difese del villaggio, Birichina, stizzita, rimandò Abracadabra e Alakazam in giardino e, dopo essersi arrabbiata col Sindaco pensando che fosse stato lui a metterle contro i suoi adorati animali. Diede sei mesi di tempo al villaggio di Ramoscello Fiorito perché trovasse qualcuno capace di farla ridere senza dover chiamare le oche. Durante i sei mesi concessi la fata si sarebbe impegnata a chiamare le oche una per volta senza attivare l’incantesimo. Mastro Quercia tornò al villaggio sollevato per la tregua raggiunta e raccontò ai concittadini il risultato dell’incontro. Subito, da Ramoscello Fiorito, cominciarono ad inviare ambasciate nei reami vicini cercando qualcuno in grado di far ridere Birichina sperando di sciogliere, così, l’incantesimo scherzoso.

Il tempo però passava e nessuno si presentava finché una sera Mastro Quercia, ormai rassegnato, sentì bussare alla porta del Municipio, aprì e si trovò di fronte un nano, conosciuto nei Regni confinanti col nome di Re Trottola perché era solito spostarsi molto velocemente girando su se stesso proprio come una trottola. Re Trottola disse che era venuto a Ramoscello Fiorito per liberare il villaggio dall’incantesimo scherzoso e chiese di poter passare lì la notte dopo aver parlato, da solo, con il Sindaco. Il mattino seguente prese congedo e ripartì per raggiungere la Montagna Incantata.

Appena giunto al palazzo della fata Birichina e presentatosi dichiarando il motivo per cui era venuto, la fata, decisa a non dare alcuna possibilità al nano, visto che mancavano ormai pochi giorni allo scadere del tempo concesso al villaggio e poi sarebbe tornata a divertirsi con le sue oche, pensò di cominciare a divertirsi da subito facendo qualche scherzo al nuovo venuto e lo invitò ad entrare, dicendogli che avrebbe soggiornato a palazzo come si conveniva ad un Re Trottola per il tempo che mancava allo scadere dei sei mesi. Re Trottola, dal canto suo, avrebbe aiutato Birichina nei lavori di palazzo che non erano di competenza della servitù.

Vista la velocità e la bravura di Trottola nel portare a termine i compiti affidatigli, Birichina, che cominciava a provare simpatia per quel nano sempre paziente nell’esaudire i suoi capricci, gli chiese di costruire un laghetto nel giardino per le sue oche a cui voleva fare un regalo. In un lampo nel giardino comparve un grazioso specchio d’acqua in cui Abracadabra e Alakazam si tuffarono a nuotare felici. Incuriosita da un improvviso starnazzare prolungato che non sentiva da tanto tempo, Birichina si precipitò nel giardino per vedere cosa stesse accadendo alle sue oche e appena vide gli animali che giocavano senza pensieri, contenta per il lavoro svolto, chiamò il nano che saltò fuori dal laghetto delle oche facendo “ qua qua” come se fosse stato anche lui un’oca, bagnando da capo a piedi la fata che si mise a ridere divertita per lo scherzo ben riuscito.

Quella notte, quando andò a dormire, Birichina sognò di un tempo passato quando il palazzo sulla Montagna era un castello e lei era la principessina dispettosa che vi abitava con il Re e la Regina suoi genitori. Sognò anche di un ragazzino che correva velocemente girando su se stesso come una trottola e accompagnava lo zio, che era il Sindaco di Ramoscello Fiorito, quando era convocato dai sovrani al castello, mentre i due fanciulli facevano sempre degli scherzi tanto agli abitanti del villaggio per mezzo della servitù quanto alla servitù stessa, finché un giorno lo Spirito della Montagna Incantata, stanco di vedere trattati così gli gnomi e i piccoli elfi, dopo aver messo Mastro Quercia a conoscenza dei suoi piani futuri, attivò l’incantesimo scherzoso che sarebbe terminato solo quando Birichina e Trottola avessero imparato a divertirsi tra di loro senza fare troppi dispetti agli altri. Al risveglio Birichina si trovò nella camera di un bellissimo castello. Il re e la regina erano in piedi a bordo letto per darle il buongiorno. Subito corse ad aprire la finestra per guardare nel giardino dove erano vissute le oche. Vicino al laghetto un ragazzo che ricordava di conoscere fin da bambina la salutava con la mano. Tutti avevano ripreso le loro sembianze di un tempo: lei, i suoi genitori, Trottola. L’incantesimo era stato sciolto.

Nel Reame di Arcadia sul Colle era tornata la felicità e, a eterno ricordo dell’evento, a Ramoscello Fiorito fu organizzata una grande festa che durò molti giorni. Nell’occasione vennero celebrate le nozze fra Trottola e Birichina e si decise che le oche sarebbero sempre state le benvenute nel reame di Arcadia sul Colle. Ne vennero pure scolpiti due esemplari nello stemma del villaggio e quando venne il loro momento di governare Birichina e Trottola si dimostrarono una saggia Regina per Arcadia sul Colle ed un Sindaco giusto e coscienzioso per Ramoscello Fiorito, per i molti anni che vissero, insieme, felici e contenti.”

La Commissione di valutazione costituita da scrittori, poeti e giornalisti rinnovano i complimenti a Marco Polli per l’eccellente componimento; congratulazioni.

A breve pubblicheremo l’intervista a lui dedicata.

Informazioni più dettagliate dell’autore sono reperibili nella sua pagina Facebook

https://www.facebook.com/marco.polli.5

Grazie

Monica Gori: Tempesta di ghiaccio

Marco Polli: La fata birichina

 

Monica Gori: Tempesta di ghiaccio

Pubblichiamo, così come previsto dal Regolamento del nostro Concorso LetterarioIl Macinino” le opere dei primi tre classificati nelle Sezioni Poesie e Racconti.

L’autrice Monica Gori, con la sua opera poetica Tempesta di ghiaccio, si è classificata al 3° posto nella Sezione Poesie.

Monica Gori: Tempesta di ghiaccio

Ecco una breve sinossi dell’opera:

Non si scappa dalla propria storia ed io sarò come la roccia immobile nel fiume impetuoso dove le acque scorrono gelide e rumorose. Ed io stanca come una statua corrosa dal tempo proverò indifferenza per ogni cosa. Perché l’indifferenza è un’arma più violenta della violenza stessa.

L’opera poetica:

TEMPESTA DI GHIACCIO

 

Il vento boreale

sparge scaglie di ghiaccio.

L’ aurora luminosa anima del cielo

respiro glaciale.

Il mio spirito sfiora l’albore della luna.

Sono viva nel battito dei miei ricordi.

Prenderò le mie lame

le macchierò di verità

e le bagnerò di lacrime.

Solo allora scriverò

che voi siete stati la mia più cara bugia,

il mio incubo più bello,

la sofferenza più grande.

Solo allora dipingerò tra un graffio e un graffito

che i miei baci erano intinti di veleno

La Commissione di valutazione costituita da scrittori, poeti e giornalisti rinnovano i complimenti a Monica Gori per l’eccellente componimento; congratulazioni.

A breve pubblicheremo l’intervista a lei dedicata.

Informazioni più dettagliate dell’autrice sono reperibili nella sua pagina Facebook

https://www.facebook.com/monica.gori.39

 

Pietro Catalano: La mia città

Marco Polli: La fata birichina

 

Pietro Catalano: La mia città

Pubblichiamo, così come previsto dal Regolamento del nostro Concorso LetterarioIl Macinino” le opere dei primi tre classificati nelle Sezioni Poesie e Racconti.

L’autore Pietro Catalano, con la sua opera poetica La mia città, si è classificato al 2° posto ex aequo nella Sezione Poesie.

Pietro Catalano: La mia città

“La mia città

Io sono zolla di memorie,

mio nonno con mani callose,

mia madre col seno zeppo

di latte, pane duro di ieri.

Sono mio padre orfano, montagne

brulle dove pecore brucano

erba tra sassi roventi.

Sono ruscello che scorre

fino al mare, albero con braccia

aperte al cielo, pioggia che disseta

campi abbandonati al crocidio dei corvi.

E questa città dimentica

il canto del mattino, chiese abbandonate

al bisbiglio di turisti, porfido antico

immolato alla nera pece, ragazzi soli

col domani nelle tasche bucate.

E’ sempre roseo il sole che tramonta

accarezzando il Cupolone, notte chiara

ai lampioni di luce fioca, rifugio

di coppiette sbocciate al bagliore della luna.

E questa città dimentica il suo futuro.”

La Commissione di valutazione costituita da scrittori, poeti e giornalisti rinnovano i complimenti a Pietro Catalano per l’eccellente componimento; congratulazioni.

A breve pubblicheremo l’intervista a lui dedicata.

Informazioni più dettagliate dell’autore sono reperibili nella sua pagina Facebook

https://www.facebook.com/pietro.catalano.585

Grazie

 

 

Nicolina Ros scrittrice, la nostra intervista

Nicolina Ros scrittrice, la nostra intervista

 

Nicolina Ros scrittrice, la nostra intervista

La Macina Magazine incontra oggi la scrittrice Nicolina Ros che ha meritatamente conseguito il 1° premio nella Sezione Racconti del Concorso Letterario Il Macinino promosso dall’Associazione La Macina Onlus e dal giornale La Macina Magazine.

Nicolina Ros non ha bisogno di particolari presentazioni tanta è la sua notorietà nel magico mondo della cultura per gli innumerevoli elogi a lei dedicati, ai premi vinti e ai 2 preziosi riconoscimenti attribuiti dai Presidenti della Repubblica Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella.

La sua produzione letteraria si può così sintetizzare:

12 Sillogi in lingua italiana e friulana;

125 Racconti;

27 Libri;

800 riconoscimenti ottenuti in concorsi letterari in Italia e all’estero.

Beh, un curriculum da far tremare i polsi ad un giornalista ma, tuttavia, proponiamo a Nicolina Ros di dialogare passando al “tu”

Buongiorno Nicolina, grazie per la tua disponibilità e complimenti per il 1° premio ottenuto al Concorso Letterario “Il Macinino”. Puoi dirci come ti è nata l’ispirazione di scrivere l’opera “La prova del 9” ?

Nicolina Ros scrittrice, la nostra intervista

 

Buongiorno e grazie a voi e alla giuria che mi onora assegnandomi questo premio.  ‘La prova del 9’ non è un racconto nato da una ispirazione personale ma da un fatto vero che mi tocca da vicino.

Il racconto affronta un tema di cocente attualità sociale, la dislessia, e il dramma che sottende tale disturbo. Ritengo particolarmente significativa ed incisiva la breve frase con cui hai terminato il racconto: “tre parole semplici ma potenti: “Ce la farò”.  Questo intenso racconto ritieni possa essere un forte strumento di sensibilizzazione per i lettori nei confronti di tali tematiche?

Credo che qualsiasi strumento atto a sensibilizzare le persone che non conoscono il problema o lo conoscono superficialmente sia, anzi debba essere, percorribile.

Come consideri ed interpreti il ruolo dello scrittore nell’attuale società che, molto spesso, è attratta “dall’effimero”?

Io non mi considero una scrittrice, ma una donna che scrive per passione e con il desiderio di dare voce a storie di vita che, il più delle volte, voce non hanno.

La scrittura ed il senso civico: leggendo alcune delle tue precedenti opere ci appare chiaro il messaggio che trasmetti con l’intento di migliorare, elevare la nostra società ed il “sentire” comune. Ci puoi approfondire questo aspetto racchiuso nei tuoi scritti?

E’ una speranza sorretta anche dalla forza che l’essere credente dona. Non mi piace la parola ‘utopia’. Diciamo che, nel nostro piccolo, tutti possiamo fare qualcosa. Magari solo ascoltando chi si mette a nudo raccontandoti la sua storia. Potrà essere solo una goccia nel mare ma, se non ci fosse, diceva Madre Teresa, al mare mancherebbe quella goccia.

Ora ti rivolgiamo una domanda che toccherà il tuo animo: qual’é il componimento preferito e che ancora adesso ti suscita particolari emozioni e perchè?

Ogni componimento è un pezzetto prezioso di vita di chi l’ha vissuto e me l’ha affidato. Ma quello che mi commuove sempre è un racconto di due pagine: ‘Scarpe rosse tacco 15’ che parla di un amore NON vissuto nella disabilità.

Nicolina, all’inizio abbiamo accennato alla tua vasta produzione letteraria, ce ne puoi parlare in maniera più completa?

Ho scritto racconti e poesie personali. Ho appena presentato il libro ‘Conta su di me’ che tratta della violenza sulle donne, ma la produzione letteraria è vasta perché condivisa con Luigino Vador, mio marito. Infatti, per lo più, scriviamo a quattro mani.

Qual è stato il tuo percorso di avvicinamento letterario che ti ha portato ad avere gli strumenti per scrivere opere di indubbio successo?

Anche qui ritorno a mio marito. Quando da ragazzi siamo stati per un periodo lontani, ci siamo scritti centinaia di lettere (allora non c’era la tecnologia di cui disponiamo ora) e ci siamo promessi che, appena possibile, avremmo scritto la nostra storia. E’ stato un impegno che abbiamo iniziato ad esprimere nel 2000 e ha dato una straordinaria svolta alla nostra vita.

Concludiamo questo dialogo, cosa vuoi dire ai nostri lettori?

Dico che li ringrazio come ringrazio voi e li saluto esortandoli ad essere gocce preziose nel mare della vita.  

Grazie Nicolina per il tempo che ci hai concesso con l’auspicio che ci seguirai con il tuo apprezzamento nei prossimi Concorsi Letterari che bandiremo.

Nicolina Ros scrittrice, la nostra intervista

Senz’altro vi seguirò nei prossimi Concorsi letterari.

Un caro saluto.

Nicolina

 

Nicolina Ros: La prova del 9

Marco Polli: La fata birichina

 

Nicolina Ros: La prova del 9

Pubblichiamo, così come previsto dal Regolamento del nostro Concorso Letterario “Il Macinino”, le opere dei primi tre classificati nelle Sezioni Poesie e Racconti.

L’autrice Nicolina Ros, con il suo racconto La prova del 9, si è classificata al posto nella Sezione Racconti.

Nicolina Ros: La prova del 9

Iniziamo con una breve sinossi dell’opera:

LA PROVA DEL 9

(Sinossi)

Il  tema centrale del racconto è basato sulla sofferenza di un bambino nel suo periodo più felice e spensierato:   l’infanzia. La mancata diagnosi della sua dislessia influisce pesantemente sul futuro limitandolo nelle sue capacità di relazionarsi con gli altri soprattutto nell’apprendimento scolastico.

I problemi di apprendimento, se non diagnosticati sin dai primissimi anni di scuola, portano i bambini ad una serie di difficoltà e fatiche sia sul piano didattico sia su quello comportamentale. Le fragilità, poi, sono subito colte da coetanei insensibili e ineducati i quali innescano fenomeni di bullismo. Il tutto, spesso, sotto gli occhi poco vigili di insegnanti distratti se non addirittura indifferenti.

Dopo vari cambi di scuole senza risultato il bambino trova, con l’aiuto di un bravo psicologo, l’accettazione del suo stato e la consapevolezza che doveva credere in se stesso, nelle sue innate qualità fino ad allora inespresse, riuscendo così a liberarlo tirandolo fuori dal marasma dove era scivolato e che rischiava di farlo impazzire.

 

L’OPERA:

LA PROVA DEL NOVE

 

“Il mio inciampare anche sulla parola più semplice era recepito come normale difficoltà della prima infanzia, che si sarebbe risolta spontaneamente. Quando ne avevo avuto coscienza compresi invece che era una difficoltà che in me si manifestava nel parlare, e nell’esporre verbalmente anche il più semplice pensiero che in testa, invece, avevo chiaro. Inutile dire che, nella mia ingenuità di bambino, credevo fosse così per tutti.

Fui subito etichettato: “Sarà un bambino normale? Sarà un bambino depresso?”

Allora neppure capivo il significato di quei termini usati dalle maestre. Avevo chiesto a mia madre cosa volesse dire, depresso. Perché depresso? Io avevo una bella famiglia unita, un papà che mi adorava, una mamma speciale, una sorella studentessa modello e bellissima.

Ero un bambino timido, introverso e tendente a isolarsi, ma derivava dal fatto che mi era difficile esprimermi.

Era solo l’inizio! Ben presto i compagni presero a deridermi e le insegnanti non si preoccuparono d’intervenire anzi, loro apertamente mi richiamavano dandomi del distratto, del passivo, passando poi a: “Asino” e ridevano a ripetermi il verso.

Solo! Così mi sentivo e in questa condizione cominciai a costruire un muro intorno a me sempre più alto, per nascondere l’umiliazione e fui segnalato come soggetto con difficoltà di apprendimento.

Per illudermi che così non fosse, minimizzavo i loro comportamenti, al punto di convincermi che, mentre loro avevano avuto in dote dalla nascita, il libretto delle istruzioni sul quale contare per ogni risposta, il mio libretto d’istruzioni era dotato di fogli bianchi.

Io avevo bisogno di un percorso alternativo altrimenti mi entravano in testa valanghe di lettere che formavano un’accozzaglia di parole che mi creavano una martellante confusione.

Lettere, sillabe:

“Mettetevi in ordine!”, supplicavo.

Invece, come dentro un sacco, esse si agitavano, sfarfallando come falene impazzite  davanti alla luce di un faro ed io, con un improbabile retino, tentavo di catturarle per poi metterle in fila ordinata.

Il sacco delle lettere, era divenuto la mia ossessione. Le imploravo di essere brave con me, ma loro se ne infischiavano, dando ragione a chi mi chiamava asino.

Nella confusione in cui io mi dibattevo, ero riuscito a comporre la prima frase: “Io sono sbagliato!”, e fu come un preludio a tutto ciò che di sbagliato sarebbe venuto ad angosciarmi, a compromettere il mio futuro. La seconda frase che composi:

“Gli altri hanno sempre ragione!”.

Tutto ciò che riuscivo a esprimere, era sbagliato. In ricreazione mi rifugiavo nell’angolo in fondo al cortile della scuola, solo! Per salvarmi, immaginavo di essere via da quel cortile, in un luogo più adatto a me. Quel luogo esisteva veramente, Riserva lo chiamavo.

Era un angolo di paradiso in mezzo alla campagna, dove mi rifugiavo nei momenti liberi. Guardando il cielo aperto immaginavo di balzare sulle nuvole e, le lettere refrattarie, dispettose e ostiche, mi uscivano come in un canto e formavano frasi bellissime. In quello stato di grazia, non balbettavo, componevo versi in rima baciata e li declamavo al vento. Tutto questo era come l’effetto di una droga: il benessere che mi procurava era intenso, ma effimero. Nella realtà vissuta a scuola, nell’assenza di amici e di aiuto specifico, svaniva la bontà inebriante di quel luogo e l’incapacità di integrarmi autorizzava i miei compagni a comportarsi con me, come se fossi un deficiente.

A scuola ero segnato come un “Niente”. Tutti additandomi usavano quest’aggettivo, che ogni giorno lievitava, diventava sasso, macigno, montagna che sovrastava l’intero pianeta, pronta a rovinarmi addosso, a schiacciarmi, ad annullarmi.

Anche a casa mi opprimeva la sua ombra.

La mia condizione di alunno, ormai, era definita: È distratto. Non si concentra. Non partecipa attivamente. Si isola senza motivo.

I miei elaborati erano una sequela di parole cerchiate di rosso, come un campo di grano pieno di papaveri.

Tuttora odio il rosso!

Ma una cosa, mi era chiara: io non ero un deficiente. Io capivo le lezioni anche prima degli altri bambini, la difficoltà stava nel tradurre in parole le risposte.

“Parla peggio di un extracomunitario uscito dalla giungla”, così al colloquio con i genitori l’insegnante si era espressa con mia madre! Dopo l’infelice uscita che aveva fatto sbiancare mamma, fui certo di odiare la scuola, le lettere, le sillabe, le parole, le frasi, la scrittura e tutto ciò che il cervello doveva elaborare.

Il mio rendimento, non migliorava. Cercavo di mettercela tutta, ma la mia rabbia cresceva di pari passo alla frustrazione dovuta al fatto che nessuno tentava di prospettarmi una soluzione.

Ho chiaro il ricordo di un compagno di classe che, nel tema, aveva scritto di come vedeva se stesso nello spazio. Quando l’insegnante gli aveva chiesto di leggerlo alla classe, mi accorsi che combaciava con la mia visione, ma io avevo sviluppato anche delle descrizioni minuziose che… non ero riuscito a trasferire sul foglio, rimasto bianco sul banco. Provai il desiderio di mordermi la mano che non era stata capace di catturare le parole e vergarle sulla carta.

Quanta fatica!

Ancora risento il ronzio nelle orecchie che nasceva dal pianto impotente trattenuto davanti alle maestre.

Davanti a loro inghiottivo il nodo delle lacrime e i singhiozzi che, restando incastrati nel petto, parevano lacerarlo. Le cinque classi della scuola primaria furono uno stillicidio. I miei genitori, forse per stimolarmi, m’iscrissero ad un corso di equitazione. Fu una scelta giusta. Mi piacevano i cavalli e, frequentandoli, mi resi conto che oltre a trarne energia, davano sollievo al mio smarrimento.

Il ciclo delle medie non fu migliore. Rabbia, frustrazione e ribellione erano mostri che, trattenuti, lievitavano dentro il mio silenzio.

Mi comportavo come il tonto perdente, rispettoso, per incapacità di reagire! Mi sentivo assolutamente inadeguato e davanti al professore che, a fine spiegazione, premiava il ragazzo più veloce nel rispondere, restavo confuso e avvilito. Io avevo bisogno di tempo, avevo bisogno di elaborazioni lunghe.

E venne il giorno in cui trovai il coraggio di ridere guardando la prof in faccia, indispettita per la mia difficoltà a spiegarle com’ero riuscito a fare la prova del 9, fuori dal metodo canonico, impossibile per me da percorrere.

Ridevo con lo stomaco strizzato dall’emozione per quel risultato raggiunto. Un risultato al quale ero arrivato da solo che mi elettrizzava. Ridevo per non farle capire quanto mi faceva male il suo sguardo che mi trapassava. Ridevo perché, in quel momento, non sapevo fare altro, era una reazione incontrollabile, ma non era certo un riso beffardo come lei lo intese e, inviperita, reagì.

Afferrato il cancellino della lavagna, gonfio della polvere di gesso, me lo schiacciò sul viso ruotandolo poi su se stesso come se fossi una scritta che intendesse cancellare, facendomi diventare lo zimbello davanti ai ventinove alunni che sghignazzavano.

Lei continuò fino a che mi vide boccheggiare e diventare blu per la difficoltà di respirare.

Io, allergico alla polvere, per alcuni minuti provai la sensazione di soffocare e caddi sul pavimento boccheggiando.

La prof si prese uno spavento memorabile, ma non si abbassò a scusarsi con mia madre e neppure a elogiarmi per aver trovato, nella mia difficoltà, un percorso alternativo per arrivare alla prova del nove.

Da quel momento per sopravvivere imparai a mettermi la maschera adatta a ogni circostanza e, neppure so dire quanto fosse faticoso indossarla.

Mi dibattevo dentro una specie di melassa alta fino in vita. Mi sentivo diverso. Percepivo, davanti a me, un dito puntato come un fucile con il colpo in canna.

Ero diverso? No! Mi avevano fatto diventare diverso!

Era stato qui che avevo conosciuto il bullismo. Avevo legato con alcune ragazzine, le sentivo più affini alla mia sensibilità. Per questo stavo con loro, non perché volessi diventare una di loro! I compagni più grandi per gli anni ripetuti, prendevano di mira i pivelli come me. Fu un periodo che ancora mi fa male ricordare. Tacevo e subivo. Inghiottivo parole offensive, gesti offensivi e inammissibili, nei gabinetti sporchi. Non ne parlavo con nessuno. Quando un ragazzino si sente inadeguato, prova vergogna, paura e, inevitabilmente, si chiude sempre di più in se stesso.

 

Avevo un solo confidente fidato: il mio cuscino. Lui mi consolava, mi assolveva, raccoglieva le mie lacrime, ascoltava tutti i miei problemi senza stancarsi mai, senza giudicarmi.

Al mio tredicesimo compleanno ebbi in regalo una batteria. Nella solitudine della mia camera mi lasciavo sopraffare dal ritmo folle, improvvisato e suggerito dall’estro del momento. Senza l’assillo di richieste da decifrare avevo la percezione di volare e mi abbandonavo sulle ali di spartiti fantasiosi che non richiedevano arrangiamenti. Erano, per me, momenti scevri dalla necessità di rovistare nel sacco per individuare lettere, comporre parole, renderle comprensibili. Quando le forze arrivavano allo stremo, mi abbandonavo sul letto e mi addormentavo felice, con il sacco chiuso.

Ero in prima superiore e, quel giorno non stavo bene, avevo vomitato durante la notte ed ero partito da casa senza fare colazione. Mia madre mi aveva dato delle caramelle vitaminiche, casomai mi fosse venuto un improvviso vuoto allo stomaco. Cosa che puntualmente accadde, procurandomi l’annebbiamento della vista. Con cautela presi una caramella e la misi in bocca. Purtroppo mi vide la prof!

«Sta mangiando una caramella?», mi chiese con voce alterata. «No», colto in fallo, risposi senza pensare. Lei prima mi fulminò con gli occhi poi mi ordinò di portarle il libretto, mi appioppò una nota e mi spedì dal Preside. Avrei voluto spiegarle il perché, ma l’agitazione per essere stato scoperto, non mi aveva consentito altro se non di tirar fuori quell’assurdo “No!”.

Il Preside avvalorò la decisione della prof e m’inserì nella lista dei diffidati. Alla prossima nota sarei stato sospeso e l’occasione capitò.

Una mattina, per il ritardo della corriera, ero entrato in classe trenta secondi dopo il suono della campanella. Il prof mi bloccò sulla porta: «Si è accorto di essere in ritardo?».

Lo squadrai arrabbiato e lui percepì che stavo per scoppiare.

«Perché mi guarda cosi? Ha intenzione di picchiarmi?», chiese sarcastico e sicuro che, come al solito, avrei chinato il capo.

«Se fossimo fuori di qui, si!», e stavolta le parole erano già in canna, non avevo auto bisogno di cercarle nel sacco. Restammo a fissarci un lunghissimo istante, lui sorpreso, io con lo sguardo fermo sul suo viso. Non l’avevo abbassato, pur sapendo che stavo facendo una grande cazzata! Volevo solo che fosse lui ad abbassare i suoi occhi da gufo. Lo fece infine e, stirando le labbra in un ghigno, andò alla cattedra. Senza voltarsi mi ordinò di portargli il libretto, scrisse la nota e mi spedì dal Preside.

Ne seguirono altre, sempre sciocchezze se confrontate all’arroganza di certi compagni che il professore, neppure richiamava.

Trovai qui una prof che si prese lo scrupolo di indagare il perché del mio isolamento. Perché non parlassi e, soprattutto, il perché delle mie difficoltà nello studio. Aveva capito che non ero un menefreghista! Ora so che, gentilezza ed empatia richiedano una grande sicurezza personale e solo chi insegna per passione, la possiede.

Neppure qui ero riuscito a farmi amico di qualcuno. Neanche con la prof, né con i miei genitori trovavo il coraggio di confidarmi per dire quanto disagio mi portassi dentro, seppure che li sentivo in ansia per me.

Mi confidavo con il mio cuscino, o con il cavallo, o parlando con il vento mentre correvo lungo il tratturo che portava alla riserva. In quello scrigno, mi lasciavo andare e, steso sull’erba, finalmente calmo, urlavo i miei versi al cielo con gli occhi che si riempivano di lacrime.

Era la mia isola accogliente quella e non mi vergognavo a mostrarmi per com’ero.

“Come posso esprimere agli altri ciò che sento, così come faccio qui?” chiedevo sperando in una risposta. Nessuno rispondeva ma, ogni volta, sentivo prudere i palmi delle mani: era a loro che avrei dovuto affidarmi, per esprimermi?

In realtà mi veniva facile fare qualsiasi lavoretto con le mani.

I miei genitori intuivano la mia sofferenza e consultarono uno psicologo.

Accettai di andarci per accontentarli, ma con la prospettiva chiara di non aprirmi, ormai ero diventato abulico.

Incontrai invece un amico, un confidente attento, una persona che con pazienza scavava dentro di me e in quella ricerca aveva trovato il mio libretto delle istruzioni portandomi a capire che i fogli non erano completamente bianchi, qualcosa c’era scritto, dovevo solo decifrarlo. E cominciai ad aprirmi, a parlare. Lui ad ascoltarmi senza interrompermi. Quando aveva consolidato la mia fiducia in lui, mi fece urlare, piangere come non avevo fatto mai, singhiozzare tutta la mia angoscia trattenuta nello stomaco allentando anche il ronzio nelle orecchie che, a volte, mi faceva impazzire.

Lui non usò sdolcinature, ma autorevole fermezza per tirarmi fuori dal mio marasma. Pretese che, se con le sue spiegazioni e le mie risposte confuse non fossimo riusciti a capirci, gli dessi dello stronzo, e, qualora ne avessi sentita la necessità, gli andassi davanti e gli assestassi un pugno in pieno volto. Insomma, dovevo esprimere me stesso togliendomi di dosso la maschera e la rabbia che avevo cresciuto nell’incomprensione.

Era una provocazione che non raccolsi, mai! Non ce ne fu bisogno. Quel Professionista mi aiutò davvero. Fu lui a prospettare la possibilità che fossi DISLESSICO.

Sì. Lo ero. Ecco il mio problema!

Avevo bisogno di un insegnamento diverso.

Non è uno stupido, il dislessico, non è un asino, il dislessico. La mente di un dislessico funziona! Certo, diversamente da quella degli altri perché segue percorsi alternativi per giungere al risultato ottenuto con il percorso abituale. Molte volte il dislessico è dotato d’intelligenza superiore dei così detti “normodotati”.

 

Ero stato promosso, ma cambiai scuola e m’iscrissi all’istituto agrario. Pensavo che lo studio di materie legate alla natura potesse essermi più congeniale.

L’unico rammarico fu lasciare la mia prof.

Facendo tesoro dei supporti che la scuola, ora mi metteva a disposizione, la mia situazione migliorò, ma troppo tempo era stato perso e capii di quanto la diversità, unita a una forte sensibilità, fosse una fregatura immensa.

Fu quello un periodo segnato da una forte ribellione.

Le conoscenze di base non acquisite, mi mancavano e ormai era fatica immensa recuperarle. Era come nuotare controcorrente!

La dislessia senza gli strumenti per aggirarla e superarla precocemente, aveva lasciato profonde lacune in me. Nessuno immaginava lo sforzo che ancora dovevo fare. Quanto ancora mi sentissi solo. Quale fatica mi avesse sfibrato nel tenere sotto controllo le difficoltà, la paura, la derisione, mentre desideravo ardentemente provare la gioia di farmi abbracciare da sorrisi incoraggianti.

Mi avvolse uno strano sfinimento, come se l’adrenalina che mi aveva sorretto nel mettere la maschera e mostrare a tutti ciò che non ero, si fosse di colpo esaurita.

Non volevo pensare più a nulla. Non provavo più emozioni, né belle, né brutte.

I miei genitori, mi regalarono un cavallo. Fu da subito un approccio positivo sul quale contare e andare oltre l’abulia.

La responsabilità dovuta all’impegno di accudirlo mi fece sentire indispensabile. Lo chiamai Geronimo, in onore del capo Sioux.

Fu il mio cavallo a convincermi e m’informai sulla scuola d’arte di forgiatura dei metalli e di ferratura dei cavalli. Sapevo che era difficilissimo entrare, ma affrontai la selezione come una sfida. Su cento richiedenti, provenienti da tutta Italia, arrivai secondo, tra i dieci ammessi.

Feci la patente e mi trasferii, per un anno, vicino a Roma per frequentare quella scuola militare.

Lontano di casa imparai a vivere da solo.

La scuola, orientata all’apprendimento della manualità, mi diede la motivazione per  aprirmi, un’arma inedita per aggirare ostacoli, sciogliere  contraddizioni, vincere l’insicurezza.

Al termine del corso, avevo imparato a modellare i metalli e a ferrare i cavalli, ma ciò che più conta, acquistato fiducia in me stesso.

«La parte artistica della modellazione dei metalli, deve scaturire dalla vostra fantasia. Dovete sentirla, cullarla, portarla a maturazione dentro di voi fino a lasciarla fluire liberamente, fino a sentirla vibrare sotto pelle. Solo allora le mani sapranno esprimere la vostra arte!» Così si era espresso il direttore della scuola nel congedarci.

Questa scuola mi ha offerto anche una seconda opportunità: quanto imparato mi dà la possibilità di lavorare per essere indipendente e a entrare a testa alta nel mondo adulto.

Ho partecipato a varie gare di ferratura e forgiatura in Italia e all’estero e ogni volta ho raggiunto il podio.

Una sera, rientrato stanco dal giro di una giornata intensa di ferratura, mi ero disteso sull’amaca, all’ombra della quercia che tiene in frescura una parte del giardino di casa. In quel dolce dondolio di culla, mi ero appisolato. Il vibrare forte delle foglie mosse dal vento, improvvisamente mi aveva fatto sobbalzare e quasi cadere dall’amaca.

I miei occhi, avevano focalizzato una rosa sbocciata nel vicino roseto. L’avevo osservata a lungo, era così bella, vellutata, splendidamente perfetta.

D’un tratto le gambe, come dotate di volontà propria, mi avevano obbligato a scendere dall’amaca e portato… alla forgia.

L’avevo accesa e, tra il carbone, avevo inserito una barra di rame.

Era tanto che dentro gli occhi vedevo l’immagine di una rosa.

L’avevo pensata, cullata, immaginato la forgiatura e, ora, la sentivo vibrare sottopelle, assieme a tutte le informazioni su cosa e come fare.

Quando la barra aveva raggiunto il giusto grado di temperatura, indossato i guanti, avevo cominciato a modellarla.

I colpi si susseguivano precisi. Le braccia ricevevano le indicazioni senza la necessità di rovistare dentro il sacco. Non sentivo la fatica e, come un gioco fantastico, il rame prendeva forma, si faceva gambo slanciato e petali e corolla ed infine rosa.

Sudato e impazzito di gioia l’avevo alzata e gridando al vento: «Tu sei la regina del futuro!».

Era la mia prima scultura, e mi donava la sensazione stupenda di aver superato il periodo più nero della mia vita.

Ero sveglio o stavo sognando?

Dalla fucina, usciva un filo di fumo e sopra l’incudine stava la Regina del futuro!

Il segno tangibile che, la prova del nove, anche se a modo mio, era, è superata.

Ancora mi sorprende la straordinarietà di quel momento.

La chiarezza con cui esperivo quanto sia di vitale importanza seguire la propria strada e scoprire quali siano le mie capacità nella libertà di fare ciò che mi rende felice.

L’importante è avere davanti, ferme e chiare, tre parole semplici ma potenti: “Ce la farò”.”

La Commissione di valutazione costituita da scrittori, poeti e giornalisti rinnovano i complimenti alla scrittrice Nicolina Ros per l’eccellente componimento; congratulazioni.

Grazie Nicolina Ros.