Il Catamarano (Andiamo avanti)

Dietro le quinte…

Scena il CatamaranoCon precedenti articoli avevamo commentato la “prima” de  “Il Catamarano” che ha riscosso un notevole successo sia nella critica che nella presenza di entusiasti spettatori; abbiamo nuovamente assistito alla replica di venerdi 21 dicembre che ha confermato l’alta qualità del testo scritto da Gabriele Mazzucco e recitato, in maniera sublime, da Andrea Alesio.

Nel mondo dello spettacolo si dice che “i numeri fanno la storia” e, vedendo la sala costantemente gremita, possiamo affermare che “i numeri” hanno dato piena ragione a Gabriele e ad Andrea. Ad onor del vero non sono solo loro “gli eroi” del momento in quanto, se uno spettacolo riesce a conseguire il meritato riconoscimento, vi è alle spalle una struttura umana e professionale ormai ben collaudata.

Federica Orrù, attrice con anni di esperienza sul palco, è instancabile e coinvolgente, cura la scenografia, i costumi, le PR, la scuola di recitazione …e tanto altro ancora;

Chiara Fiorelli, giovane ma valente attrice, si presta ad una molteplicità di ruoli, collabora anche alle scene;

Paola Raciti, anche lei giovane attrice, poliedrica nelle espressioni, è la preziosa figura indispensabile nella organicità dello spettacolo;

Gabriele Mazzucco, scrittore dei testi, regista e cuore pulsante del Barnum Seminteatro, preciso, attento ai dettagli in quanto – come dice – “sono i dettagli che fanno il successo” ed il pubblico lo capisce quando uno spettacolo è ben curato.

Il Catamarano  

dietro le quinte…

“Andiamo avanti”

Forse questa è l’espressione cardine che rappresenta l’essenza della narrazione che ha accompagnato la vita del giovane Andrea sin dall’infanzia.

Dobbiamo ringraziare Gabriele Mazzucco che ci ha consentito di partecipare al “dietro le quinte” e vivere l’atmosfera della preparazione, delle prove, dei movimenti ripetuti infinite volte per meglio rappresentare e trasmettere al pubblico l’intenso messaggio umano, di forte sentimento e commozione che non è mai (s)caduto, però, nella facile retorica e richiesta di applausi.

Andrea Alesio è un gigante del monologo, ha saputo rappresentare vari personaggi dagli anni ’50 ai giorni nostri; da ciascuno ha saputo trarre gli aspetti caratteristici – alcuni esilaranti – portandoli all’attenzione dello spettatore. Ha saputo catturare l’attenzione del pubblico ed il suo animo, ha saputo creare profondi, assoluti e riflessivi momenti di silenzio nella sala, ha saputo donare momenti di gioiosa allegria per le sue battute, mai scontate.

Su tutti è presente la meravigliosa figura del nonno sempre vivo nel cuore di Andrea e suo punto di riferimento.

Il “dietro le quinte” ci ha consentito di scambiare alcune riflessioni con Gabriele e Andrea, visibilmente provati ma pienamente soddisfatti a fine spettacolo: un pubblico che racchiudeva ampie fasce di età, abituato ad andare a teatro, giustamente attento e critico.

Aver fatto breccia e coinvolto questo pubblico di qualità  è la conferma dell’ottimo testo di Gabriele Mazzucco ed una indiscussa eccellenza artistica dell’attore Andrea Alesio che si è cimentato – con assoluto successo – in un monologo lungo e complesso per la diversità dei personaggi raffigurati.

Anche il nonno, basilare figura sempre citata ma presente fisicamente solo nella intensa scena finale, ci ha mostrato la sua commozione ed ha espresso parole di stima e profondo affetto per Gabriele ed Andrea.

Il Catamarano è stato già rappresentato in alcuni teatri non solo della città di Roma e ad ogni rappresentazione si è registrato un entusiastico Sold Out.

E’ stata la loro mossa vincente.

Photo credits: Enrico Diamanti

Isabel Russinova racconta la chiave della sua Virginia B

L’atmosfera raccolta del Teatro Belli, nel pieno centro di Roma, è la cornice perfetta per raccontare una storia di non semplice rappresentazione. Virginia (Isabel Russinova) e suo marito, il Professore (Antonio Salines), sono una coppia sposata da oltre vent’anni e con una figlia (Annabella Calabrese) già in età da marito. Sullo sfondo i magnifici anni ’50 e il loro boom economico e culturale a fare da contesto, le pagine dei due diari tenuti dai protagonisti come escamotage per introdurre il tema dell’intimità insieme alla citazione del rivoluzionario Rapporto Kinsey, l’indagine sui comportamenti sessuali di uomini e donne americani che sfidava i convenzionali tabù e svelava i segreti delle camere da letto. Il Professore voleva parlarne dei suoi segreti e lo faceva con Lorenzo (Fabrizio Bordignon), un giovane amico di famiglia, infatti: confessava a lui tutte le sue perversioni ed esprimeva senza remore il desiderio di praticarle, soprattutto, rendendolo complice a vari livelli. Ogni tanto questo accadeva anche con la sua elegante moglie Virginia, la cui educazione però le impediva non solo di affrontare l’argomento a parole, ma anche di vivere appieno la sua sessualità. Fino ad un giorno in particolare, quando qualcuno deciderà di uscire allo scoperto per iniziare a dare corpo a tutte le passioni represse per tanto tempo, scelta che condurrà ad un tragico finale.

Isabel Russionva

Isabel Russinova, artista di grande esperienza che sul palco veste i panni della protagonista Virginia, in qualità di sceneggiatrice dell’intera rappresentazione risponde a qualche curiosità sulle origini di questo interessantissimo spettacolo.

Dal Giappone all’Italia degli anni’50 per omaggiare il capolavoro di un autore complesso come Junichiro Tanizaki: quali sono state le caratteristiche di questa opera che l’hanno colpita fin da subito e l’hanno convinta a scriverne un adattamento teatrale dal sapore particolarmente nostrano?

– Tanizaki è un autore con mille sfaccettature e contraddizioni, intenso e delicato, drammatico e allo stesso tempo ironico, innamorato della sua tradizione ma profondamente affascinato dall’occidente, sicuramente interessante e coinvolgente proprio come la figura femminile che ama rappresentare: luminosa, intelligente, magnetica, ti porta dentro al suo mondo e ne resti affascinata. Il suo sentire, il sentire dei suoi personaggi, è universale, è il sentire dell’uomo; io l’ho trasferito nel mondo che conosco, quello occidentale, e inserito   negli anni 50, ancora non così lontani dal dopoguerra ma così proiettati verso l’imminente boom economico. Tanizaki racconta il muoversi leggero e meraviglioso di personaggi in kimono, tra tradizioni, usanze e pensieri distanti per cultura e storia da noi, anche se la capacità di percepire è la stessa, non ha tempo né luogo.

Due gli adattamenti cinematografici del passato, tra cui l’omonimo film “La Chiave”, diretto da Tinto Brass ed interpretato da Stefania Sandrelli, record di incassi al botteghino nel 1983. Trascurando per un momento le differenze di linguaggio e, se vogliamo, anche di intenzioni, ci può raccontare come secondo lei è cambiato il modo di raccontare l’eros al pubblico da allora?

– Brass ha raccontato, attraverso la sua visionarietà e la sua sensibilità, mosso anche dal pulsare della società di allora, il cinema, il teatro, l’arte e la cultura che, come specchio del tempo, lo subiscono e contemporaneamente lo vogliono forgiare.  La mia scrittura parte dalla mia sensibilità, da un’idea di eros che è pensiero, fantasia, poesia, delicatezza, dolcezza e assolutamente lontana dalla carne…

Tornando invece al discorso cinema/teatro, le chiedo di confermare un’impressione: è possibile che parlare di erotismo tra le quinte teatrali sia un modo di farlo che più si avvicina a quello delicato che l’autore giapponese utilizza per descrivere il vero e proprio viaggio introspettivo che i due protagonisti, seppur adulti, compiono nelle coscienze individuali alla ricerca della loro dimensione sessuale?

– Credo che il racconto sia frutto della sensibilità di chi lo crea e non del linguaggio che utilizza. Quando prima di scrivere e mettere in scena il testo ne avevo parlato, più di un interlocutore non riteneva possibile portare in teatro l’erotismo, forse perché ancora legati all’immaginario di Brass, solo con la parola, ora si sono ricreduti… Quando leggiamo un libro o ascoltiamo un racconto, ciascuno crea da quegli spunti le proprie immagini, i volti, i personaggi, la loro voce, gli ambienti, le azioni che sono diverse per ognuno di noi.

Feticismo, masochismo, dominazione e adulterio sono alcuni dei punti su cui il racconto indugia, argomenti che ben si sposano con l’intreccio da noir psicologico della trama. La virata tragica che la storia prende sul finale sembra un chiaro riferimento al binomio classico Eros/Tanathos, il mito greco dei due massimi principi che, opponendosi, reggono il cosmo: in quale relazione ha desiderato mettere questi due estremi durante la stesura della sceneggiatura?

– Si, per la stesura del testo ho scelto proprio la strada del “noir psicologico “. La psicoanalisi freudiana dibatte proprio di questo -eros e morte- nel suo saggio “Al di là del principio di piacere” e ne parla ampiamente. Mi interessava però raccontare anche la ribellione di Virginia, il suo percorso psicologico in bilico tra moralismi e insofferenze, tra buio e luce, la sua scelta che  si fa strada travestita da non-scelta.

Considerato il suo percorso di emancipazione a cui abbiamo potuto assistere durante lo spettacolo, possiamo considerare Virginia una femminista?

– In un certo senso direi proprio di sì.

La chiave di Virginia B al Teatro Belli

Dal 26 aprile al 1 maggio il Teatro Belli di Roma ospiterà “La chiave di Virginia B”, di e con Isabel Russinova. Con Antonio Salines, Fabrizio Bordignon e Annabella Calabrese, l’Ars Millennia Producion, per la regia di Rodolfo Martinelli Carraresi, porta in scena uno spettacolo pensato come un omaggio al capolavoro erotico dello scrittore giapponese Junichiro Tanizaki. Il testo teatrale della Russinova è ambientato negli anni ‘50, periodo di grandi cambiamenti etici e sociali nel nostro Paese, in cui l’erotismo e la donna hanno le valenze e i Russinova 2condizionamenti che riflettono e rappresentano le ansie, ma anche le speranze proprie del dopoguerra.

Nella vicenda teatrale, l’erotismo è l’ideale filo conduttore, simbolico di un rapporto affettivo complesso, che assume toni paradossali, dove di volta in volta si alterna la volontà dell’uno di prevalere sull’altro, il desiderio di tenerezza contrapposto alla volontà di sopraffazione. In un crescendo di situazioni emotivamente coinvolgenti, il “gioco al massacro” dei protagonisti assumerà toni noir, culminando in un finale sorprendente.

Nel romanzo del grande autore giapponese, la materia erotica è esposta al lettore con estrema raffinatezza, inserita in un quotidiano che non può prescindere da situazioni e temi espliciti. L’erotismo diventa così una sorta di pretesto che porta a un’indagine più profonda: “nel fitto di uno stupefacente labirinto, che sembra costruito poco a poco nel corso di accumulazioni secolari entro la psiche umana, quasi ad avviluppare passioni, errori, delizie proibite (….). Dal volto vizzo e satiresco dell’anziano marito, si sprigiona lucidamente una crudele attualità, nella quale si finisce per riconoscere una parte viva, sottaciuta ma bruciante, di noi stessi: il bilico dell’uomo di sempre e anche di oggi, che non tralascia occasione per inventare qualche nuova forma, raffinata e desolata, di rischio, di autocondanna, di perdizione” (Geno Pampaloni).

Info e prenotazioni:

tel. 06 58 94 875 – email  botteghino@teatrobelli.it

Ufficio Stampa

Alma Daddario & Nicoletta Chiorri

segreteria@eventsandevents.it

Una domenica a teatro: “La Storia di mezzo”

Quando la realtà supera la fantasia è possibile che quella di un uomo che si suicida perché ha perso il lavoro si trovi ad essere il tragico spunto che la cronaca fornisce ad un autore per tornare a raccontare qualcosa. Egli dunque lo interiorizza e poi restituisce al suo pubblico vestito di nuovo, così trasformato da non poter più scivolare addosso come quando era ancora una delle tante cattive notizie ascoltate per caso al telegiornale. Questo Gabriele Mazzucco lo sa o, quantomeno, questa è l’impressione che si ha quando, uscendo dal teatro, si cerca di ricostruire il percorso che lo ha portato a scrivere “La Storia di mezzo”. Eppure durante l’intervista ci aveva anticipato che la sua esperienza personale nel mondo del lavoro mista alla percezione della realtà circostante erano state la principale fonte di ispirazione; ciò che invece difficilmente avremmo potuto immaginare è quello che abbiamo visto sul palco.

Dopo il suo licenziamento, il trentenne Simone (Luca Restagno) decide che legarsi un cappio al collo è l’unica cosa che gli è rimasta da fare; è un uomo così insicuro che, quando apre gli occhi e si ritrova sdraiato a terra con la corda penzolante, stenta a credere di essere riuscito in qualcosa una volta tanto. Tuttavia, ancora non del tutto convinto, inizia a vagare per casa cercando il coraggio di ripetere il gesto. Quasi per caso, ad interromperlo in questo momento così delicato intervengono per farlo ragionare una serie di personaggi, dal bizzarro portiere (Gigi Palla) e la sua infelice moglie (Federica Orrù) alle personificazioni dei suoi animali domestici, la seducente gatta Cleopatra (Chiara Fiorelli) e Nino (Andrea Alesio), il pesce rosso ubriacone: persino l’incarnazione della sua passione per la musica, l’androgina ed inevitabilmente hippie musa Angie (Armando Sanna), non gli risparmia il discorsetto. Come per magia quella sera sono tutti lì a svelargli finalmente i segreti di un’esistenza felice, tutti riuniti nel pozzo dove il suo gesto l’aveva gettato a ricordargli e ad insegnarli qualcosa durante l’ultimo passaggio della vita dopo la morte. Adesso Simone ha capito e non vede l’ora di tornare indietro; sarà però una pallottola a ricordargli che purtroppo non è più possibile e che il suo destino ormai è di rimanere in quel pozzo.

La scenografia essenziale ma completa, ricca di colori anche vivaci, fa da sfondo a quella che si rivela essere una commedia che prende le mosse dall’iniziale tragedia avuta luogo quella notte in quel salotto, a casa del protagonista. Spettacolo complesso ed originale, presenta situazioni comiche e surreali piene di battute e riferimenti sempre freschi e mai banali arricchite da un dovuto tributo al dialetto romanesco che, lungi dall’appesantire le scenette caricaturandole, viene utilizzato per delineare con precisione i contorni dei personaggi.

Mazzucco e Orrù: la loro “Storia di mezzo”

Sarà il Teatro S. Luigi Guanella di Roma ad ospitare gli attori della Compagnia degli Arti che questo venerdì, sabato e domenica torneranno a calcare il palco per riproporre, con un cast in parte rinnovato, una pièce dai toni comici ma con un grande significato sociale.

Gabriele Mazzucco, autore e regista dello spettacolo, e Federica Orrù, attrice co-protagonista, rispondono ad alcune domande sulla rappresentazione e ci raccontano la loro esperienza da artisti.

Dopo recente successo, questo weekend torna in scena “La Storia di mezzo”, lo spettacolo record di presenze e incassi nella stagione 2014-2015 del teatro romano Ambra alla Garbatella nonché vincitrice dei premi Thealtro 2012 e Teatro Araldo di Torino. Gabriele, è pronto per questo nuovo debutto?

– Non credo di essermi mai sentito realmente pronto prima di un debutto. Il carico di ansie che mi porto prima di qualsiasi replica riesco ad alleggerirlo solo nel momento dei ringraziamenti. Spesso si trasforma in gioia, altre volte in rabbia (se qualcosa non è andata come volevo); diciamo che vivo in modo profondo e viscerale ogni rappresentazione, dalle prime fasi fino all’ultima replica. Quando seguo gli spettacoli dalla regia ripeto una dopo l’altra le battute in parallelo agli attori in scena. Spesso mi lascio andare a digressioni e valutazioni in tempo reale. Molti colleghi o amici che hanno visto con me in regia i miei spettacoli, parlano del mio modo di vivere le repliche come “di uno spettacolo nello spettacolo”: il bello è che in quel momento non me ne accorgo assolutamente.

Scritta nel 2009, questa che lei stesso definisce una “tragicommedia”, diventata anche un libro, racconta la storia di un neo-licenziato, una figura che ormai siamo tristemente abituati a conoscere. Com’è nata l’ispirazione?

– Erano gli anni in cui studiavo all’università e parallelamente vivevo di lavori saltuari: impiegato in più sale scommesse, cameriere, organizzatore di tornei di calcetto, buttafuori. Intorno a me vedevo i miei coetanei affannati nella ricerca del posto fisso; in realtà sentivo che il precariato estremo sarebbe stato il nostro futuro e che il posto fisso ormai apparteneva al passato o comunque a pochi, pochissimi privilegiati. Di qualche anno ho anche tristemente anticipato i tanti casi di suicidio che ci sarebbero stati con l’avvento della crisi. Immaginavo che questo cambio radicale della percezione del lavoro, unito alle tante spese e allo stile di vita ai quali eravamo abituati, avrebbero preso alla sprovvista fino alla disperazione tante persone. Purtroppo i fatti si sono rivelati tali… nonostante le tante parole di certi politici.

Come e in quale misura i toni comici e le situazioni a tratti surreali hanno aiutato a raccontare quella che invece è una realtà di disperazione assoluta? Quali sono stati, se ne hai incontrati, invece i limiti?

– La disperazione, il dramma, la tragedia raccontate per come sono non mi hanno mai interessato. Siamo capaci tutti a piangere quando le cose ci fanno male; alcuni invece riescono meglio a controllare il proprio dolore evitando le lacrime. Diverso è riuscire a trasformare il pianto in riso: lì c’è una volontà che somiglia tanto alla vita, è spirito di adattamento ed istinto di sopravvivenza. La risata è una ricchezza che va oltre qualsiasi situazione e che per quanto mi riguarda non mostra limiti, se non forse quello di non essere presi subito sul serio. Le persone superficiali ad esempio non prendono sul serio le risate ma a me viene soltanto da ridere.

C’è qualcosa di autobiografico in questa opera oppure si è semplicemente lasciato ispirare dalla realtà circostante?

– Come detto la società in cui sono cresciuto mi ha sicuramente ispirato; in egual misura ha avuto una forte influenza anche il mio ambiente famigliare e quello degli amici più stretti che ho frequentato dai 16 fino ai 26 anni (quando ho scritto La Storia di mezzo). C’è un po’ di tutto e un po’ di pochi in questo mio testo. Credo sia per questo che piaccia ad un pubblico così ampio di persone.

A proposito della sua formazione, in un’occasione si è trovato a riportare le parole di chi usa definire la sua Dams (Disciplina delle Arti, della Musica e dello Spettacolo) la “laurea del nulla”, un titolo che le avrebbe potuto assicurarle soltanto una carriera da eterno precario. Secondo la sua esperienza, il futuro di chi sceglie di fare dell’arte il proprio mestiere è davvero così incerto?

Ora il futuro è incerto per tutti. Negli anni a cavallo tra la nuova realtà e la percezione che la gente aveva di quanto stava succedendo ho scelto di seguire l’istinto e di buttarmi a capofitto nel mestiere del precario per antonomasia… l’artista. Se proprio devo vivere come vogliono loro, mi sono detto, almeno voglio farlo a modo mio.

Anche Federica Orrù, attrice professionista, sarà sul palco durante questo weekend. Cosa ci può raccontare del suo personaggio senza svelare troppo gli intrighi della trama?

– Il personaggio che interpreterò è quello di Maria, moglie del protagonista Simone. Maria è una perfetta donna moderna, divisa tra lavoro, casa, palestra e problemi di coppia. Una donna che ha voglia di vivere ed essere felice ma insoddisfatta di quello che la vita le sta offrendo e che non fa più nulla per nascondere questa sua infelicità anche se nel profondo del suo cuore nutre ancora la speranza che le cose, un giorno, possano cambiare… saranno gli avvenimenti improvvisi e continui a decidere che direzione prenderà la sua vita e quella di tutta la sua bizzarra famiglia.

Ha intrapreso la strada della recitazione perfezionandosi per anni e lavorando per la televisione, il cinema e il teatro. Quanto incide avere una buona preparazione per chi decide di dedicarsi a questa professione?

– Credo che Il mestiere dell’attore sia sicuramente uno dei più impegnatavi a livello di studio e preparazione tecnica: diventare attore è prima di tutto un lavoro su sé stessi e un percorso di studio intenso, che una volta intrapreso, richiede approfondimento continuo e costante e che può e deve durare l’arco di un’intera carriera. Ritengo quindi che la preparazione sia fondamentale, come in tutti i campi della vita, per diventare dei professionisti, ma allo stesso tempo c’è bisogno che la tecnica appresa diventi un connubio inscindibile anche con un qualcosa che è un di più, qualcosa che è simile ad una specie di “magia”, qualcosa che non si può insegnare: talento, personalità, fantasia, immaginazione, curiosità, espressività, vissuto personale… e tutto quello che del proprio mondo interiore l’attore riesce a comunicare al pubblico, in quel modo che dovrà essere solo suo, attraverso il personaggio che sta interpretando in quel momento.

Quale consiglio si sente di dare a chi ha timore di inseguire il proprio sogno da performer?

– Come già detto non è un mestiere semplice, bisogna determinarsi e volerlo veramente essendo disposti ad affrontare i sacrifici che richiede ma anche pronti a ricevere le grandi soddisfazioni che può dare. Iniziare dai primi passi. Per cui suggerirei di provare, con entusiasmo e serietà, ad incontrarlo quel sogno, quello che ognuno sa e conosce dentro di sé.

Progetti futuri sui quali sentite di poterci dare qualche anticipazione?

Finite le rappresentazioni de “La Storia di mezzo” inizieremo a lavorare su un monologo che porteremo in scena a maggio al Teatro Ambra alla Garbatella. In scena ci sarà Andrea Alesio per la regia di Gigi Palla. Il testo ancora lo sto rivedendo per proporre qualcosa che sia profondamente stimolante per noi e per il pubblico. Dimenticavo, il titolo del monologo è “Il Catamarano”.